Do un colpo di tosse, la gola graffia, riesco a malapena a parlare. Mi inserisco un millimetro alla volta nel flusso di gente che esce.
“Chi bravu stu guagliuna” commenta la signora sulla sessantina con la permanente rivolgendosi alla sua amica con una pettinatura ancora più vistosa. “Passami il mantello nero, il vestito da torero, oggi salvo il mondo intero, con un pugno di poesie” canta un coretto improvvisato di tre ragazze che più in là avanza un passo alla volta ondeggiando le teste sulla metrica della canzone. Questa volta le generazioni si sono mischiate e hanno applaudito insieme, ci sono tutti dai nonni ai nipoti, non è più adolescente il suo pubblico come ammetteva anche lui ai tempi del Vol.1
Nella penombra, dal mio sedile vedevo professionisti in abiti da gran serata che si abbandonavano a balli a braccia alzate cantando insieme al vicino di posto. Come Amelie mi voltavo a guardare gli altri spettatori durante le canzoni e tutti, alcuni più compìti altri più plateali, muovevano le labbra insieme a quelle di Dario.
Luci, scenografia e sonorità assumono l’autorevolezza dei grandi concerti, ma Dario rimane il giocherellone di sempre. Fa ridere di gusto tutte le generazioni con un umorismo genuino e imbastisce un duetto tenero e divertente con il nipote 3enne in grembiule e chitarrina il cui carisma sul palco promette un futuro da esaltatore di folle.
Coinvolge nel concerto gli altri artisti della città come la splendida voce di Aldo D’Orrico che apre e i Takabum che accompagnano in qualche pezzo, mentre gli altri musicisti applaudono fra il pubblico.
Dopo le canzoni di “A casa tutto bene” introduce i pezzi degli album precedenti a modo suo: “…si, vabbè tanto lo sappiamo che i pezzi vecchi erano meglio”. Parte “Come stai” e poi una splendida versione pianoforte e voce di quella che è “Piccolo grande amore” per Baglioni o “Vita spericolata” per Vasco Rossi. Le note malinconiche di “Guardia 82” danzano sulle teste di chi è seduto in platea insieme al coro unisono di tutto il teatro, rendendo quel momento perfetto.
All’uscita la gente si saluta e si abbraccia in un clima di famiglia. Famiglia, è proprio la parola che descrive meglio l’atmosfera che Dario Brunori ha creato ieri sera. Mio fratello Dario ha cantato le sue canzoni, ha fatto le sue battute e ha dialogato con il pubblico in dialetto abbattendo quella barriera di divinità fra il cantante e il pubblico che si sente in altri concerti. Con Mammarella sas in platea, il nipote sul palco e gli amici di una vita ad applaudirlo non era difficile sentirsi a casa, ma la popolarità troppo spesso ha effetti alienanti sulle persone che ne sono colpite. Invece Dario è ancora Dariù e abbraccia la sua città come faceva prima di comparire da dietro le quinte tecnologiche degli studi Rai annunciato da un presentatore. La sua città ricambia.
E’ stato per me come dovrebbe essere un concerto, dove si canta fino a graffiarsi la gola, si ride ad alta voce e dove si sente che quella persona sul palco ti è vicina perché canta quello che tu vorresti dire, perché cresce insieme a te e perché mette in rima le tue inquietudini e le tue gioie con le tue stesse parole. Le sue “stupide canzoni” mi piacciono perchè riescono in tutto questo rumore, in tutto questo dolore, a ricordarmi chi sono.
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