Quando inventi la nave, inventi anche il naufragio.

Così parlava di tecnologia il filosofo francese Paul Virilio e il suo principio può essere applicato a tutto lo sviluppo tecnologico da quando il sapiens è sapiens.
Le tecnologie degli ultimi decenni, capeggiate da internet, hanno portato nelle nostre vite infiniti vantaggi, ma sono sempre accompagnate da una serie di svantaggi, piccoli o grandi. Una delle questioni spinose che accompagnano la tecnologia digitale è la Privacy. L’orda di chip che ci ha travolto nell’età del silicio, ha sollevato problematiche inedite sulla necessità di proteggere l’intimità dell’individuo da una circolazione abusiva della propria identità.

Il concetto di privacy esisteva certamente anche prima di internet, ma nell’era digitale è diventato un argomento cruciale, polarizzante per la politica, ansiogeno per gli utenti e per le aziende, un mestiere per alcuni e un attore da far sedere al tavolo della ricerca scientifico-tecnologica.

Qualche tempo fa uno spot televisivo in Italia sensibilizzava gli adolescenti alla cautela sulla condivisione di proprie fotografie su internet con lo slogan “quello che arriva su internet, rimane su internet”. Lo spot era molto efficace perché traghettava i ragazzi dallo scenario pre-internet di una polaroid pinnata sulla bacheca nel corridoio di una scuola, alla nuova realtà in cui un’immagine digitale si moltiplica e si diffonde velocemente sulla rete sfuggendo di mano e precludendo al proprietario quello che è stato poi definito diritto all’oblio.
Ricordo che quello spot, per la prima volta mise bene davanti agli occhi di tutti quello che era diventato il problema della privacy nel mondo di internet.

Oggi cominciamo a digerire il problema della diffusione non voluta delle immagini, la consapevolezza degli utenti è molto superiore rispetto ad un tempo anche se non mancano gli eccessi di ansia. E’ prassi consolidata infatti, in questi anni, coprire i volti dei bambini delle foto caricate online con stickers per evitare che l’immagine del nostro campione con la faccia buffa e la maglietta sporca di sugo mentre spegne le candeline, possa stuzzicare le fantasie erotiche dell’admin di un sito pedopornografico che scaricherà il file per usarlo nella sezione Hot Birthday Baby. Eventualità certo non impossibile, ma sicuramente molto improbabile.

Anche i social si adattano, garantendo all’utente molto controllo sulle immagini della propria persona, ma ora è l’hype è sulla privacy dei dati personali.

Big Data, Big Privacy

Anche qui la questione non è banale.
In grandissima parte i Big Data oggi vengono aggregati e analizzati per vendere Ads (pubblicità) sulle principali piattaforme. Semplificando molto, anzi moltissimo, attualmente l’utilizzo più “malvagio” che viene fatto dei nostri dati personali, è sfruttarli per targettizzare aspirapolveri a chi deve comprare un aspirapolvere.
Invece la maggior parte delle preoccupazioni dell’opinione pubblica riguardo la privacy ha basi emotive, per lo più fantasiose, che purtroppo sono alimentate da un’informazione che le nutre invece che smorzarle.
Un esempio sono gli Hub di Home Automation a comando vocale che abbiamo in casa che NON ascoltano le nostre conversazioni per avvertire Amazon, Google o Facebook di cosa vorremmo acquistare, men che meno rivelano ai servizi segreti cosa abbiamo detto durante il pranzo. La motivazione più immediata sarebbe che alla CIA poco importa di cosa dice Ciro Esposito nella sua casa di Forcella mentre arrotola due spaghetti con la pummarola. Ma esistono anche diverse motivazioni tecniche per cui questo è impossibile.

Ad esempio, per analizzare ed estrarre informazioni dalle discussioni che la famiglia Esposito fa durante la giornata, a Google servono una quantità di risorse X.
Per prima cosa, il dispositivo spia, che l’incauto Ciro ha ingenuamente collocato nella sua sala da pranzo, dovrebbe inviare ai server di Google un flusso audio continuo per tutte le 24h della giornata, impegnando una certa quantità di banda internet, tutto il giorno, tutti i giorni.
Inoltre, questo flusso audio grezzo impegnerebbe un processore della Server Farm di Google per essere analizzato ed estrarre informazioni utili.
Una volta che Google ha scoperto, da una caotica e sconnessa conversazione dove ognuno parla in italiano locale, con rumori di fondo e sovrapposizioni di voci, che a Ciro si è rotta la lavatrice, può finalmente inondare i suoi social con pubblicità di lavatrici di ogni marca e modello.
No, questo non succede.
Perché una volta compresa la quantità di risorse X necessarie a Google per spiare Ciro, moltiplicate X per qualche centinaio di milioni di utenti che posseggono quei dispositivi a casa e scoprirete che non è proprio conveniente per l’azienda ascoltare le conversazioni vocali di Ciro, quando Ciro ha già scritto sul motore di ricerca di Google “Comprare Lavatrice Forcella”.

Quindi al netto delle credenze popolari, i dati che oggi vengono collezionati dalle grosse corporations attraverso le nostre attività su internet, servono per la maggior parte a vendere pubblicità o ad avere feedback per migliorare i prodotti che le aziende vogliono venderci. Ma domani?

Domani

Oggi i dati sono posseduti da aziende tutto sommato “buone” che stanno sotto governi tutto sommato “buoni”, ma domani potrebbero passare di mano sia i dati che le aziende.
Infatti non sarebbe affatto tranquillizzante se domani Google o Facebook, in un momento di difficoltà, ricevessero dalla Cina o dalla Russia un’offerta “che non possono rifiutare”.
Inoltre queste miniere di dati verranno date in pasto ad intelligenze artificiali che ancora non abbiamo inventato, dando ai proprietari dei sistemi la capacità di conoscerci meglio di come noi conosciamo noi stessi. E questa per noi non è certo una buona posizione in cui stare.
Abbiamo già avuto un assaggio della forza dell’arma combinata Big Data – Intelligenza Artificiale nel caso di Cambridge Analytica. Seppur isolato, questo è il caso più eclatante di un utilizzo di questa tecnologia che non sia la vendita di pubblicità, ci ha già mostrato la sua pericolosità per la stabilità della nostra civiltà quando è in mano ai soggetti sbagliati.

Da un’analisi di questo tipo sembra perciò che la tecnologia non sia poi così tanto conveniente e che sia più un rischio da cui difendersi.
Ma a confutare questa tesi arriva una pandemia globale. In particolare arriva la Corea del Sud che è riuscita ad appiattire la curva esponenziale di contagio del SARS-CoV-2 grazie ad una serie di interventi efficaci fra cui l’utilizzo massiccio della privacy dei propri cittadini.
Il governo di Seul ha infatti tratto vantaggio da una serie di tecnologie per individuare i contagiati e tentare di evitare che a loro volta questi contagiassero qualcun altro, limitando così la diffusione del virus e appiattendo la curva di contagio. Il Contact Tracing è quella pratica che incrocia dati provenienti da diverse fonti digitali per individuare chirurgicamente quei cittadini che possono essere entrati in contatto con portatori del virus. I cittadini coreani venivano notificati dal sistema del rischio e veniva chiesto loro di prendere le precauzioni del caso oppure di recarsi in un centro dove avrebbero effettuato il tampone per la rilevazione del virus.
I dati utilizzati da tale sistema provenivano dagli operatori telefonici attivi nel paese, dagli operatori finanziari delle carte di credito e perfino dalle telecamere a circuito chiuso che identificavano se il soggetto “sorvegliato” stesse indossando la mascherina oppure no.

Insomma, la Corea del Sud in questi giorni di emergenza ha strapazzato molte delle nostre certezze acquisite sulla privacy, ma i coreani come l’hanno presa?
Non hanno battuto ciglio. La Corea del sud non è la Cina, è una repubblica presidenziale sufficientemente democratica per gli standard occidentali, ma a quanto pare la popolazione ha reputato accettabile un’invasione di privacy a gamba tesa del governo perché fatta in un momento di emergenza.

Ma i popoli occidentali accetterebbero di cedere tanta privacy in cambio di sicurezza sanitaria?

La bilancia Sicurezza – Privacy

La bilancia Sicurezza – Privacy è da parecchi anni ormai nel dibattito politico-sociale in tutti gli stati democratici. Il cursore sulla barra di questa dicotomia viene continuamente spostato da una parte all’altra, a seconda delle inclinazioni autoritarie della forza al comando. Più un governo è autoritario e più stringe la maglie della sicurezza chiedendo ai cittadini di cedere un pò della loro privacy. E viceversa.
Chiaramente, nell’epoca della consapevolezza del valore della propria identità, una cessione di privacy non è mai vista di buon occhio, ma nella stanza dei bottoni sanno che con la giusta combinazione di metodo e paura, si riesce sempre a far ingoiare il rospo alla popolazione.
Fra Sicurezza e Privacy quindi è una gara al compromesso. A quanto pare queste due grandezze devono convivere sullo stesso asse e sono concatenate inscindibilmente tanto che per aumentare l’una bisogna necessariamente ridurre l’altra.

Ma perché cedere privacy al governo ci fa così male alla pancia?

La risposta è semplice, perché non ci fidiamo del nostro governo. Perché veniamo da decenni in cui, quello che dovrebbe essere il nostro papà, ci ha difeso, ma non sempre, ci ha incoraggiato, ma non sempre, è dalla nostra parte però è stato beccato a fare accordi col vicino ricco cedendo a lui un pò del nostro benessere, un pò dei nostri diritti e un pò della nostra paghetta.

Il papà è quello verso il quale ti lasci cadere dalla poltrona con gli occhi chiusi e sai che ti prenderà al volo a costo di slogarsi un polso.
Il papà rinuncia ad un pasto nei momenti di magra per vederti crescere.
Il papà è quello che ti insegna tutto quello che sà, perché vuole che tu lo raggiunga e lo superi.
Chi tentennerebbe ad aprirsi ad un papà? Chi invocherebbe la privacy con una persona di cui si ha la certezza che stia dalla nostra parte?

Quindi mi chiedo. Il problema è la privacy in sè, oppure il problema è che non ci fidiamo del nostro papà?

A pensarci bene io sarei ben contento di cedere tutti i miei dati al mio governo se fossi certo che li utilizzasse per proteggermi da un virus pericoloso.
Sarei ben contento di farlo entrare nel mio telefono se fossi certo che utilizzasse quei dati per informarmi che due giorni fa ho condiviso la carrozza 6 del treno con un cittadino infetto e potrei essere in pericolo.
Sarei ben contento di fargli leggere tutte le mie cartelle cliniche se quei dati potessero aiutare la ricerca scientifica a trovare il vaccino per il virus per me e per tutti.
Sarei contento di far analizzare i miei spostamenti da una Intelligenza artificiale se con i dati aggregati della popolazione fosse in grado di riconoscere i pattern di movimento di un terrorista che sta progettando un attentato.
Sarei perfino ben contento di concedere alle aziende private di mettermi le mani nei pantaloni se fossi certo che il mio papà stesse lì a sorvegliare che non mi venga fatto del male.

Questa pandemia, e il caso della Corea del Sud, ci hanno mostrato come le applicazioni della tecnologia siano rallentate da ansie sulla privacy spesso ingigantite dalla paura del tradimento del nostro papà. L’ombra dello stupro della nostra privacy da parte dello stato si ingigantisce sulla parete facendo sembrare il problema più grande di quello che è.

Se guardiamo alla mappa politica del pianeta in scala globale, nonostante gli ultimi infelici sviluppi politici, possiamo ancora dire che l’occidente viva in un regime democratico in cui il sistema stato è tutto sommato dalla nostra parte. Per questo motivo personalmente sento di prendermi qualche rischio garantendo un livello di fiducia al mio stato/papà, anche se non del tutto meritato, e lasciare andare qualcuna delle ansie di tradimento sulla privacy perché il corrispettivo scientifico/tecnologico di cui godremmo sarebbe enorme.

Invece oggi lo sviluppo di tali sistemi tecnologici è spesso frenato in maniera determinante da questioni concernenti la privacy. Imprenditori e ricercatori con buone idee, buona volontà e risorse pronte da investire, sono scoraggiati fino alla rinuncia dal guardiano del cancello della Privacy che oggi è diventato un gigante permaloso e irascibile che incenerisce ogni avventore che si presenti al suo cospetto.
E’ come se ora che abbiamo inventato la nave non ci allontaniamo dalla costa perché abbiamo paura del naufragio.

L’ansia della privacy si alleggerirebbe di molto se aumentasse la nostra fiducia nello stato.
Abbiamo creato un mostro che cresce costantemente in complessità e diventa zavorra per lo sviluppo scientifico tecnologico perché tentiamo di tappare le falle di un sistema che ha la perdita a monte.
Ancora una volta il problema da indirizzare non è aumentare la sofisticazione delle policy sulla privacy, ma migliorare il nostro sistema elettorale per riuscire ad aumentare la qualità della nostra classe dirigente e riuscire a fidarci di loro.