Una nuvoletta bianca si solleva. I piedi affondano nel materasso, sono uniti, simmetrici, fermi. Le caviglie si toccano, le gambe unite, parallele, tese. Il busto è dritto, segue la linea delle gambe in una verticale assoluta, come fosse il pianeta terra ad essere allineato con il suo asse. Il petto si allarga tronfio, i muscoli gonfiano la canottiera azzurra. Rotondi, tesi, immobili. Le braccia sono protese in alto, allargate a formare una Y. Il mento è alto, la testa è rivolta verso il cielo, gli occhi sono chiusi, la concentrazione non può ancora uscire. Il rosso dei capelli arde come la sacra fiaccola.

I pugni rimangono chiusi per 2 lunghissimi secondi. Serrati a mantenere il controllo del corpo fino alla fine. L’espressione è grigia, neutra, impassibile. Le mascelle serrate squadrano il volto.

E’ fatta. L’energia scalpita, si può lasciare andare.

Un respiro profondo gonfia il torace, poi rilascia la tensione. Gli occhi si aprono e vedono il soffitto altissimo del palazzetto, la testa si volta verso il tavolo dei giudici, le braccia non riescono più a rimanere ferme. Si scuotono con intensità crescente in segno di vittoria, i pugni si stringono ancora di più, l’energia si libera. La grinta si materializza sul suo volto sotto forma di un sorriso largo a denti stretti, è l’espressione di chi realizza che tutto è andato come doveva andare.

Un boato. Tutto il pubblico della monumentale struttura esplode all’unisono. Si alza in piedi in una standing ovation istantanea e sincronizzata come fossero stati tutti guidati da un semaforo che diventa verde. Gli italiani li riconosci, sono quelli che non applaudono, saltano scomposti. Sono quelli che si lasciano andare come solo gli italiani sanno fare. Non ci si può preoccupare di essere composti per liberare un tale gioia. Una gioia che era li prima che iniziasse l’esercizio, nulla poteva andare male, la gioia era solo stata tappata, compressa, religiosamente contenuta durante i sessanta secondi che sono appena terminati. Le bandiere tricolore sventolano in ogni direzione. Gli spalti vibrano della gioia di un intera nazione. La voce del cronista trabocca di entusiasmo per la convinzione che quell’esercizio non può che essere d’oro.

“Perfetto! Perfetto! Perfetto! E’ un esercizio perfetto!”

“Non ci possono essere sorprese, non ci possono essere dubbi”

Il frastuono è assordante, anche i tifosi con bandiere di altri colori applaudono l’atleta che li ha stupiti con il più bel esercizio della gara.

La panchina è in delirio, Bruno sale le tre scalette con un balzo per andare ad abbracciarlo. E’ fuori dalle regole spartane dell’organizzazione americana, ma le regole sono argini troppo piccoli per contenere la traboccante esultanza di un coach che per 4 anni ha sognato quel momento.

Gli anelli stanno ancora oscillando, quando il vociare del pubblico di colpo si alza di nuovo e diventa più acuto perchè sul tabellone è comparso il punteggio.

“Nove e ottocentoottantasette!” – urla il cronista interrompendo la descrizione del replay.

“Nove e ottocentoottantasette!”

“E’ medaglia d’oro! E’ medaglia d’oro!”

“E’ la medaglia più bella di queste olimpiadi”

“Ce l’hai fatta Yuri, ce l’hai fatta”