Domanda. E’ un buon segno che aziende private prendano posizione sul tema dei diritti delle minoranze come quella della comunità LGBT?

Il progressivo sdoganamento di tabù nella nostra cultura dà ai diversi soggetti sociali il coraggio di esporsi e prendere posizione.

Le istituzioni pubbliche però sappiamo si esprimono spesso per calcolo politico. E’ un esempio lampante il diniego del patrocinio al PRIDECS da parte dell’amministrazione cosentina e solo il tempo potrà essere giudice se il calcolo di Mario Occhiuto sia stato corretto o meno per il suo consenso elettorale. Difficilmente riscontriamo in queste esternazioni da parte di esponenti politici un genuino interesse per la sfera dei diritti delle minoranze.

Le aziende private invece rispondono ad un’altra logica, quella del mercato. Ricordiamo la bufera di indignazione generata dalla dichiarazione di Guido Barilla in una trasmissione radiofonica:

Non faremo pubblicità con omosessuali perché a noi piace la famiglia tradizionale. Se i gay non sono d’accordo, possono sempre mangiare la pasta di un’altra marca

Frase per cui il figlio del fondatore dell’azienda è stato costretto dal consiglio di amministrazione a scusarsi:

Barilla precisa di avere “il massimo rispetto per qualunque persona, senza distinzione alcuna”, “il massimo rispetto per i gay e per la libertà di espressione di chiunque. Ho anche detto – e ribadisco – che rispetto i matrimoni tra gay”. Infine, conclude la nota, “Barilla nelle sue pubblicità rappresenta la famiglia perché questa accoglie chiunque, e da sempre si identifica con la nostra marca”

Dichiarazioni di circostanza grondanti di ipocrisia che avevano il solo scopo di evitare il boicottaggio dei prodotti Barilla da parte dei membri della comunità LGBT italiana e mondiale.

Personalmente guardo con sospetto il supporto che le aziende private palesano sul tema dei diritti LGBT. Dipingere il logo di arcobaleno una volta all’anno e chiedere alla propria agenzia di comunicazione di sfornare un claim sagace è un’operazione a costo zero. E’ una facile campagna di marketing che approfitta di una lotta di civiltà decennale con lo scopo di acquisire popolarità di brand.

Lo scorso anno ho assistito al Pride San Francisco, la città dove le avanguardie dei diritti omosessuali sono nate quando ancora in Italia vigeva il delitto d’onore.

Ero eccitato nell’assistere ad un evento maturo, nato decenni addietro proprio in quella città, dove la cultura LGBT aveva avuto il tempo di svilupparsi e consolidarsi e dove un intero quartiere è casa di persone che si sentono libere baciarsi per strada e vestirsi come gli pare. Era come guardare il futuro, assistere in anteprima a come sarebbe stato il mondo nei confronti della comunità LGBT dopo una piena integrazione culturale.

La mia eccitazione si è lentamente spenta quando ho realizzato che la comunità LGBT aveva venduto il proprio orgoglio alle multinazionali. La maggior parte dei gruppi nella sfilata erano infatti le aziende della Silicon Valley che avevano addobbato un carro, dipingendo di arcobaleno il proprio logo e facendo sfilare i propri dipendenti per distribuire sticker e voucher agli spettatori ai lati della strada.

Gli stati uniti nella nostra sono epoca un’avanguardia in molti ambiti, sono innegabilmente un trend setter nel bene o nel male. Guardare lo scorso anno a San Francisco una festa di libertà, nata per appartenere a chi ha lottato per conquistarla, nelle mani delle corporation, mi ha dato un enorme senso di sconforto. Così come guardare oggi la mini campagna web di Ferrarelle mi ha fatto immaginare un futuro dove la comunità LGBT anche in Italia ha svenduto le proprie lotte al dio denaro.